Ho conosciuto Nicole Pecoitz al Milano Photofestival 2022. Visitando la sua mostra fotografica “Paka Pepe Paki Cae” a Palazzo Castiglioni, ho molto apprezzato come accostava le parole scritte nel suo diario alle immagini scattate durante il viaggio. Non semplici didascalie ma un resoconto personale di sensazioni e pensieri originati da quello che andava scoprendo. Visitando in seguito la mostra sulle foto inedite di Tiziano Terzani, da lei curata, ho capito che la sua cifra stilistica è proprio la narrazione raccontata con parole e con immagini. Si dice spesso che viaggiare è un po’ come andare alla scoperta di sé stessi, entrare in un paese sconosciuto è come andare incontro all’ignoto che c’è in tutti noi, il viaggio come esperienza antropologica. Proprio questo ho ritrovato nel felice accostamento di parole e immagini del lavoro di Nicole Pecoitz, giovane fotografa e curatrice molto promettente, che “Il Milanese” vuole far conoscere ai suoi lettori. I paragrafi riportati tra virgolette nell’intervista sono tratti dalle didascalie ce accompagnano le foto.
Raccontaci del motivo che ti ha portato in Bangladesh
Sono partita nel 2018, a ventidue anni, l’età delle domande e delle crisi. Avevo incominciato a percepire un malessere leggero nei confronti della società opulenta, consumista, che mi sembrava poggiare su vanità e vuote apparenze. Sapevo che volevo partire per un altrove al di là di ogni logica, che mi mettesse in gioco e mi scuotesse da questo torpore. Avevo iniziato a leggere alcuni libri di Terzani e vedevo in questo strano personaggio il mio stesso bisogno di essenzialità, le stesse domande e gli stessi sfoghi indignati dinanzi a certe storture. Dopo aver sentito i racconti di amici che erano tornati da viaggi in missioni in Asia e in Africa, ho contattato il Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere). In Bangladesh non ho deciso di andarci io, ha deciso il Pime per me. E forse anche un po’ Terzani.
«In Bangladesh gli interruttori delle ventole vanno al contrario. Mi ricordo che nella notte della giungla ci si metteva una vita a capire come farli funzionare. E così i gesti della testa per dire “sì” e “no”, e il contare con le dita. Tutto al contrario. Per non parlare del tempo; va così lento che a volte sembra andare all’indietro.»
Dov’è cominciato il tuo viaggio?
Il mio viaggio comincia a Dhaka.
«Qui vige la legge del più veloce. I semafori ci sono ma nessuno li guarda. Passa chi si muove per primo ed è più grosso degli altri. I guidatori sono abituati, sanno quando frenare; per questo, a parte grandi spaventi, non arrivano mai notizie di incidenti. Nelle strade ad alta velocità, invece, i bus sfrecciano come saette invadendo costantemente le corsie opposte e le morti sono all’ordine del giorno.»
«Intorno ai bus c’è un mondo di corruzione straordinariamente ramificato, come del resto in ogni branca dell’amministrazione bengalese. Qualche giorno prima del nostro arrivo per le strade di Dhaka ci sono state molte proteste, pacifiche, di studenti con il risultato che molti controllori hanno incominciato a salire sui mezzi per verificare la licenza dei guidatori. Temendo ciò, i bus irregolari – la maggioranza - hanno smesso di circolare. Tutti però sono sicuri che questa situazione sia destinata a durare poco e tutto a tornare come prima».
L’incontro con le suore è stato un momento significativo della tua esperienza
Le missioni sono state i luoghi della mia quotidianità, mi hanno accolto i primi giorni e mi hanno salutato diversa al ritorno in Italia. Attraverso questo filtro ho conosciuto il Paese.
«Il termometro oggi è fermo sui 35 gradi e registra un’umidità all’89% ormai da cinque giorni. La pioggia, nonostante sia la stagione dei monsoni, si fa ancora attendere. Nel convento delle suore dell’Immacolata si prega san Giuseppe affinché interceda per far cadere qualche goccia; nel frattempo andiamo al mercato a comprare provviste per la cena».
Le suore sono state le mie sorelle, madri e nonne. E, soprattutto, delle mediatrici fantastiche tra il mio sistema occidentale di interpretazione della realtà e quello che avevo tutti i giorni sotto gli occhi. Grazie a loro ho compreso e colto fino in fondo aspetti della vita e situazioni all’inizio scomode o irritanti. Le fotografie e i testi sono un omaggio anche a loro.
E quello con Padre Quirico Martinelli?
«Padre Quirico Martinelli calpesta questi vialetti di fango dal 1975. Ha deciso di portarci qui oggi. Saluta tutti e scambia qualche parola con alcuni. Ci raccontano come è andata la giornata e ci chiedono: "cosa hai mangiato?". È questa la domanda con cui comincia ogni conversazione, prima ancora di "come stai?”. “È qui che - scopro con sorpresa - la gente è più accogliente che altrove. Sono contenti che qualcuno li venga a trovare; aprono volentieri le loro porte che si affacciano su piccolissime stanzette colorate. Non c’è spazio per la tristezza o l’autocommiserazione; al contrario, si respirano accoglienza e pace».
Come è stato il viaggio nella campagna verso Dhanjuri?
«Ore 6:15, umidità 79%. Niente aria condizionata. Dieci ore per coprire meno di trecento chilometri. Dieci ore in cui i finestrini mostrano l’infernale capitale lasciare spazio pian piano al quartiere industriale di Zirani, alle strade sterrate e poi, finalmente, a indefinite distese di verde».
«A bordo del cng, il taxi dei bengalesi (un trabiccolo simile alla nostra ape car ma senza porte né finestre). Suor Cristina vive in questi paesi da più di sessant’anni e non si stanca mai di guardare la sua gente».
«L’avventura continua a bordo dei classici van, biciclette con assi di legno impiegate per trasportare merci, bestiame, persone. Le chiome degli alberi chiudono la via ai raggi del sole, abbracciandosi alle nostre spalle. La strada per Dhanjuri è piuttosto dissestata ma Selim, che ci guida alla scoperta delle risaie al tramonto, non dovrà badare solo alle buche: dovrà scansare capre, papere e maiali - e sopportare suor Teresa che ad ogni sobbalzo esclama «Oporomeshòr» (‘O mio Dio’, in bengalese)».
«Ci sono 32 gradi e l’aria è satura. Tra poco - dicono le suore - pioverà ancora. Oggi ha già piovuto quattro volte e ogni volta porta con sé una nuova brezza miracolosa, anche se per poco tempo. Siamo arrivati a Dhanjuri che significa “paese del riso”, per le risaie che vi crescono intorno».
E l’arrivo a Dhanjuri?
«Dopo un viaggio di circa dieci ore nella giungla, l’accoglienza è simile a quella che si racconta venisse riservata alle regine ospiti in paesi remoti. La sacralità secolare della tradizione ci ha donato, in ordine: un fiore appena colto dal giardino, un canto di benvenuto (“Shagotom”) e un banchetto a base di pesce e banane in brodo. Per finire, dal momento che le strade del villaggio sono fangose, alcune donne si sono chinate per dar vita al rito che si ripete da secoli: la lavanda dei piedi. Ai loro inchini rispondiamo coi nostri”.
«In Bangladesh le case della popolazione ricca sono fatte di mattoni. La maggior parte delle famiglie si deve accontentare invece di pareti d’argilla e tetti in lamiera. Oggi, camminando per queste stradine dopo una notte di pioggia torrenziale, vedo alcuni muri sgretolati e cospicue parti di case trascinate via dall’acqua. All’alba gli uomini erano già immersi nelle pozze per estrarre l’argilla che poi sarebbe stata lasciata essiccare al sole. La casa deve essere ricostruita in fretta”.
La condizione femminili e le novizie sono alcuni dei temi che tu hai esplorato. Perché?
Secondo la tradizione bengalese, le ragazze, quando concludono il primo ciclo di studi a quattordici anni, devono decidere cosa fare della loro vita. La maggior parte di loro si sposa e costruisce la sua famiglia. Chi, invece, vuole continuare gli studi si trasferisce in strutture simili ai nostri ostelli, alcuni dei quali sono amministrati da congregazioni religiose. In questi ostelli le ragazze finiscono il liceo e l’università; poi possono intraprendere un percorso spirituale e di discernimento di circa sei anni, alla fine dei quali, con la Professione perpetua, si entra a far parte della Congregazione per sempre. Nel 2018 ho conosciuto Cecilia, Happy e Merina che erano circa a metà di questo percorso. Dal giorno che hanno preso i Voti Temporanei sono incominciati gli ultimi passi di questo cammino.
«Oggi è il grande giorno. Quello che nei conventi di Dhaka e di Dhanjuri si aspettava con trepidazione da mesi. Le tre novizie Cecilia, Happy e Merina diventeranno suore, ognuna nel suo paese natale. Qui Sister Merina ha la sua famiglia e la sua casa; le altre due ragazze sono partite ieri sera al tramonto per tornare nelle loro comunità di origine. Al sorgere del sole tutto è pronto per le celebrazioni: alcuni fiori hanno deciso di spuntare per rendere più bello questo giorno. La cerimonia questa mattina si terrà nella chiesetta di Asshapara, il villaggio delle anatre».
«Qui uomini e donne ascoltano la messa rigorosamente divisi, retaggio della vicina cultura islamica. Bambini e ragazzi stanno in prima fila, cantano a cappella, suonano il toblà (il tamburello) e l’armonium (una specie di piccolo organo a soffietto). Oggi ho avuto l’onore di suonarlo anche io».
E il tema religioso?
L’Islam è la religione ufficiale del Paese, la struttura della società segue il calendario musulmano. La popolazione del Bangladesh è per l’89% musulmana, il 10% hindu e il restante 1% si divide in buddisti, cristiani e religioni tradizionali. Tuttavia, lo Stato riconosce la presenza di altre religioni e si mantiene un clima di tolleranza tra la popolazione; infatti, si rispettano anche altre feste come il Natale cristiano e altre celebrazioni hindu. In passato si è verificato qualche episodio di estrema violenza nei confronti di gruppi di cristiani ma adesso il Bangladesh è un paese tranquillo e la convivenza tra diverse religioni è pacifica. Al di là di questa patina ufficiale si cela però un’esperienza quotidiana di alcuni religiosi non musulmani che è indice di un certo disagio. Le religioni “minori” subiscono spesso soprusi e discriminazioni: per esempio, i cristiani fanno fatica a trovare lavoro nel campo statale oppure, se intraprendono un’attività commerciale, vengono attorcigliati dai lacci di una burocrazia tentacolare e di una corruzione dilagante. Le Missionarie dell’Immacolata mi hanno raccontato che negli uffici pubblici, essendo loro donne e per di più senza marito, vengono spesso lasciate ad attendere per lunghe ore oppure viene loro richiesta la presenza di un uomo che svolga le loro pratiche. Insomma, il rapporto tra le religioni è ufficialmente pacifico ma le minoranze devono faticare sicuramente di più per districarsi in un mondo ormai pienamente e convintamente musulmano.
«La festa si riversa nei cortili delle case e le pentole si riempiono di riso e dal (lenticchie); enormi colonne di fumo si innalzano riscaldando ancor di più l'aria già umida del villaggio. Ci si siede tutti intorno alla tavola e si incomincia a mangiare rigorosamente con la mano destra. Riso, pollo, verdure cotte e zuppa di lenticchie sono la base della dieta di qui e tra poco finiranno sulle tavole delle persone che ho incontrato».
Il confine tra India e Bangladesh è uno dei confini più pericolosi al mondo
«Quello tra India e Bangladesh è uno dei confini più pericolosi al mondo. Una cortina di ferro elettrificata è stata costruita da Nuova Delhi per bloccare i traffici illegali, i presunti terroristi e il flusso di profughi bengalesi. Le guardie di frontiera indiane sono note per le continue violenze ai danni degli immigrati. Ma dove il muro non arriva perché la giungla e il fiume ne impediscono la costruzione, il confine si attraversa così».
I bengalesi si spostano molto per andare in India a lavorare o studiare, oppure anche per cure mediche: agli occhi dei bengalesi, infatti, l’India è un paese ricco e sviluppato, una specie di America luccicante. Il Bangladesh, fino al conflitto per l’Indipendenza nel 1971, era territorio indiano; è quindi solo da quell’anno che ha assunto gli attuali confini. Esistono perciò dei villaggi che per metà si trovano in India e per metà in Bangladesh; ad oggi alcune famiglie bengalesi hanno parenti indiani perché i due territori sono vicini o immediatamente confinanti.
La collaborazione tra i due paesi è trasparente tanto che negli anni i governi hanno stretto diverse alleanze e contratti proprio per facilitare lo spostamento delle popolazioni. La sorveglianza è però severa, le autorità regolano i flussi e non vedono di buon occhio giornalisti e fotografi. Tuttavia esistono zone montuose o difficilmente raggiungibili che non sono controllate e in cui, di conseguenza, le persone possono attraversare tranquillamente il confine.
E il ritorno a casa
«Ciò che di più prezioso porto a casa è una diversa dimensione del tempo. Il tempo del Bangladesh che all’inizio mi dava così fastidio e che ho imparato ad apprezzare in questo mese. Il tempo che dipende dai monsoni, dalla strada, dal caldo. È un po’ come uno di quegli interruttori delle ventole che funzionano al contrario e che all’inizio spazientiscono. Qui ho imparato che si tratta semplicemente di togliersi via l’orgoglio, di scrollarsi dai sandali quella polvere che ci impedisce di camminare liberi e leggeri».