Une belle vie, une belle mort

© Riccardo Bononi - Une belle vie, une belle mort

© Riccardo Bononi - Une belle vie, une belle mort

13 Giugno 2021

Abbiamo incontrato Riccardo Bononi autore di “Une belle vie, une belle mort”, edito da IRFOSS, l’Istituto Ricerca e Formazione nelle Scienze Sociali. Il libro fotografico, uscito nel 2019, indaga la vita del popolo malgascio e il suo rapporto con la morte.

Nell’incontro Riccardo ci spiega che è un racconto sulla morte e sulla “tanatologia”, ossia la scienza che studia gli aspetti culturali della morte e del morire, che poi è anche la materia che insegna all'Università di Padova.

«E' un po' come un libro di fantascienza ambientato in un mondo in cui la morte non esiste», osserva Bononi. «Questa tesi in Madagascar non è soltanto un’ipotesi teorica. Lì la morte è interpretata in modo diverso: è un passaggio ordinario della vita».

Per un malgascio, ci spiega Bononi, nel momento in cui un cuore smette di battere non è che la persona non ci sia più; essa resta sempre un essere umano, solo un po' diverso. Quando muore diventa più lento, smette di parlare. Diventa, di fatto, identico al neonato che non sa camminare, non riesce a mangiare da solo e non parla. I morti continuano ad avere una volontà, a sentire, ad ascoltare e a vedere. Quando si muore, nessuno piange, nessuno si scompone, nessuno fa particolari drammi. I morti vengono tenuti per mesi, fino a quando non si sciolgono i liquidi, dentro grandi case. Sono delle ricostruzioni di quelle che avevano da vivi. Dopodiché vengono riportati nella casa nativa dove tornato a relazionarsi con i loro familiari. «Questo “assenza” della morte cambia radicalmente il senso della vita: non fanno più paura né le malattie né l'invecchiamento. Di questo si occupa il primo capitolo del libro “Madagascar’s posthumous life"».

Il secondo capitolo,“Generation graveyard”, tratta dell'unico cimitero in Madagascar, quello coloniale francese in disuso, che è diventato la dimora di bambini orfani o abbandonati durante il colpo di stato. E’ come una specie di “isola che non c'è”, ci spiega Boboni, popolata da bambini costretti a vivere di piccoli espedienti.

Il terzo capitolo “The red island and the black death” si sofferma sul Madagascar come l'unico paese al mondo in cui c’è la peste endemica. La situazione è drammatica: ci si sono circa quattro mila casi dichiarati di peste bubbonica all’anno con diversi casi di morte.

Nell'ultimo capitolo viene descritta la vita nella più grande discarica a cielo aperto del Paese, trasformata in cimitero per gli indesiderati e in casa per chi è stato abbandonato dalla società. Bononi ci spiega che la discarica, situata appena fuori dalla città, è una delle più grandi del continente africano: 70 acri, grande come il centro storico di Padova. Un luogo abitato da tutti quelli che non hanno un'identità.

Ci vivono bambini abbandonati dalle madri a pochi mesi dalla nascita che riescono a sopravvivere allevati da altri bambini. Si sono trasferiti in questo posto alla ricerca di qualcosa di valore nei rifiuti. Sono vite, sottolinea Riccardo, che sfuggono ai censimenti dello stato, fuori da qualsiasi legge. Oltre tremila persone che lì dormono, mangiano e lavorano.

Ci racconta Bononi:«io ci sono arrivato seguendo i casi non dichiarati di peste. Gli abitanti la chiamano “the city of flies” (la città delle mosche)».

 

Raccolta immagini

Riccardo Bononi

Laureato in due diversi campi delle scienze sociali, psicologia e antropologia, Riccardo è membro dell'agenzia fotografica internazionale Prospekt Photographers. Dal 2010 Riccardo lavora come antropologo visivo presso l'Istituto Irfoss di Padova, Italia.

Pur combinando fotografia e audiovisivo come approcci di ricerca privilegiati, ha lavorato in Africa, Sud e Nord America, Asia ed Europa. Dal 2006 si è concentrato sui tabù riguardanti la morte, soprattutto in Madagascar.

Nel 2015 è stato nominato "Best Photographer of the Year - Professional Sport Category" ai Sony World Photography Awards. Le sue foto sono state esposte a Londra, Berlino, Bucarest, Parigi, Pechino e Lishui. Nella sua visione la fotografia documentaria è molto più di un mero strumento di raccolta dati: è la base per un linguaggio universale, un ponte tra persone e luoghi che permette di superare i confini invisibili tra le culture.